Caio Giulio Cesare
Caio Giulio Cesare (13 luglio, 100 AC - 15 marzo, 44 AC) fu un generale Romano ed un dittatore. Le sue conquiste militari in Gallia estesero l'Impero Romano fino all'Oceano Atlantico, e di questo fatto ancor oggi si vedono le conseguenze. La creazione da parte sua di un governo sotto il Primo Triumvirato (si veda appresso) portò la Repubblica Romana alla fine. Più tardi divenne dittatore a vita ed iniziò molte riforme nella società e nel governo di Roma, lavoro che fu presto interrotto dal suo assassinio. Molte di quelle riforme furono successivamente realizzate da Cesare Augusto. Le azioni militari di Cesare ci sono note in dettaglio dai "commentari" scritti da lui.
Caio Giulio Cesare |
La famiglia di Cesare non era ricca, secondo gli standard della nobiltà romana, e nessun membro della sua famiglia aveva raggiunto posizioni di rilievo in tempi recenti, sebbene nella generazione del padre ci fosse una rinascita delle loro fortune. Nell'86 AC morì il padre e nell'84 AC ripudiò la moglie Cossuzia per poter sposare Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Cinna nello stesso anno. Questo legame familiare, con coinvolgimenti politici, gli causò gravi problemi durante la dittatura di Lucio Cornelio Silla, che nell'82 AC gli ordinò di divorziare perché Cornelia non era patrizia; Cesare rifiutò e prudentemente lasciò Roma per il servizio militare in Asia e Cilicia. Rientrò a Roma nel 78 AC alla morte di Silla e cominciò la sua carriera forense e politica come pubblico accusatore, percorrendo il cursus honorum.
Mentre si recava a Rodi per i suoi studi di Filosofia fu rapito dai pirati. Egli convinse i rapitori a chiedere un riscatto molto alto, aumentando così il suo prestigio in Roma. Dopo la sua liberazione organizzò una flotta, catturò i pirati e li fece condannare a morte per crocifissione.
Dopo aver retto la carica di questore in Spagna (69 AC), Cesare fu eletto edile curule nel 65 AC, pontefice massimo nel 63 AC e pretore nel 62 AC. Se è vero che fu implicato nella cospirazione di Catilina, non ne rimase danneggiato.
Cesare era stato anche al servizio del generale Pompeo, con il quale avrebbe più tardi diviso il potere. Dopo la morte della moglie Cornelia 68 AC, sposò Pompea, nipote di Silla, solo per divorziare dal lei nel 62 AC dopo uno scandalo. Nel 61 AC Cesare fu governatore della provincia della Spagna ulteriore, e nel 60 AC fu eletto console.
Nel 59 AC, l'anno del suo consolato, Cesare formò una alleanza strategica con due altri leaders politici, Crasso e Pompeo. Crasso era l'uomo più ricco di Roma; Pompeo era il generale con più successi. Cesare portò nella alleanza la sua popolarità politica e la sua guida. Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare. Questa alleanza non ufficiale dagli storici fu chiamata Primo Triunvirato. Il triunvirato segnò la fine della Repubblica.
Nel 59 AC fu anche governatore di Gallia e Spagna. Come Proconsole in Gallia (58 AC - 49 AC) ingaggiò la guerra contro vari popoli, sconfiggendo gli Elvezi nel 58 AC, i Belgi ed i Nervii nel 57 AC ed i Veneti nel 56 AC. Nel 55 AC tentò una invasione della Britannia. Nel 52 AC sconfisse una coalizione di Galli. I suoi commentari di questa campagne sono raccolti nel De Bello Gallico (La guerra Gallica).
Dopo la morte di Crasso ucciso nel 53 AC durante la guerra contro i Parti, si aprì una spaccatura fra Cesare e Pompeo. Invitato nel 50 AC dal Senato a sciogliere il suo esercito, Cesare rifiutò e scoppiò la guerra civile. Un indovino allertò Cesare circa la sua conquista. Gli fu raccomandata prudenza sul Rubicone. Cesare lo traversò il 10 gennaio del 49 AC ("Alea iacta est" cioè "Il dado è tratto") ed inseguì Pompeo a Brindisi sperando di poter rimettere in piedi il loro accordo di 10 anni prima. Tuttavia Pompeo lo eludeva e Cesare compì una sorprendente marcia di 27 giorni fino in Spagna per incontrarvi il luogotenente di Pompeo. Poi si recò in oriente per sfidare Pompeo in Grecia dove il 10 luglio del 48 AC Cesare mancò di poco una catastrofica sconfitta di Pompeo. Avendolo finalmente sconfitto nella battaglia di Farsalo, in Grecia, nel 48 AC, fu nominato console per 5 anni, mentre Pompeo fuggiva in Egitto, dove fu assassinato da un sicario del Re Tolomeo VIII d'Egitto.
Non contento del vantaggio guadagnato, Cesare andò in Egitto, qui si impegnò nel sostenere il ruolo di Cleopatra, che divenne sua moglie anche se solo per la legge egiziana. Sconfisse poi Pompeo e gli ultimi
suoi sostenitori a Tapso (46 AC) e Munda (45 AC).
Dopo esser stato nominato Dittatore per 10 anni nel 46 AC, fu fatto Dittatore e Console a vita l'anno seguente (45 AC), e fu chiamato Padre della Patria (Pater Patriae). Prese inoltre il titolo di Imperatore. Al mese di quintilis fu cambiato nome in suo onore ed ancora oggi si chiama "luglio". Furono poste sue statue a fianco di quelle degli antichi re ed ebbe un trono d'oro in Senato ed in Tribunato.
La questione se Cesare fosse intenzionato, o meno, ad accettare il titolo di Re, per liquidare il titolo di
"Dittatore", o invece sfuggire la questione partendo per il Mediterraneo orientale per combattere i Parti, ha causato molti dibattiti accademici. È sicuro, tuttavia, che la sua evidente arroganza ed ambizione gli procurò grande impopolarità ed il sospetto dei contemporanei.
Cesare fu assassinato nel Teatro di Pompeo (dove si riuniva il Senato dopo che la sua sede era andata distrutta in un recente incendio), alle Idi di marzo (15 marzo) del 44 AC. Fu accoltellato da un gruppo di cospiratori che voleva preservare la repubblica dalle sue ambizioni monarchiche. Fra i cospiratori c'era il figlio adottivo Bruto. Cesare cadde ai piedi della statua di Pompeo e le sue ultime famose parole sono riportate in vario modo:
Narra una leggenda che la moglie Calpurnia (che aveva sposato nel 49 AC) lo aveva messo in guardia per una premonizione, appena la notte precedente, ma Cesare aveva risposto: "Non dobbiamo aver paura che della paura".
Dopo la morte di Cesare, scoppiò una lotta di potere fra i suoi nipoti, il figlio adottivo Ottaviano, il suo luogotenente Marco Antonio ed i suoi assassini Bruto e Cassio. Ottaviano prevalse e divenne il primo Imperatore Romano, con il nome di Cesare Augusto.
Tra gli innumerevoli ritratti che di lui ci sono stati conservati, particolarmente significativi sono due, quello del suo aspetto fisico, tracciato da Svetonio nelle sue Vite dei Cesari, e quello morale, tracciato dal suo grande avversario Cicerone in un passo della seconda Filippica.
Ecco quello di Svetonio:
La sua opera di scrittore, tuttavia, lo pone tra i più grandi maestri di stile della prosa latina, considerando anche i suoi commentari della guerra in Gallia (De Bello Gallico) e della guerra civile contro Pompeo e il Senato (De Bello Civili). Queste narrazioni, apparentemente semplici ed in stile diretto, sono di fatto un annuncio molto sofisticato del suo programma politico, in modo particolare per i lettori di media cultura e la piccola aristocrazia in Italia e nelle
province dell'Impero.
Le sue principali opere letterarie sopravvissute sono:
Non meno incisivo quello di Cicerone:
Opere perdute: diverse orazioni (in una di esse, l'elogio funebre della zia Giulia, si affermava la discendenza della gens Iulia da Iulo-Ascanio e quindi da Enea e Venere), un trattato su problemi di lingua e stile (De analògia), terminato nell'estate del 54, vari componimenti poetici giovanili, una raccolta di detti memorabili e un poema sulla spedizione in Spagna nel 45; un pamphlet in due libri contro la memoria di Catone Uticense, scritto in polemica con l'elogio di Catone composto da Cicerone.
Opere spurie: oltre al libro ottavo del De bello Gallico, le ultime tre opere del cosiddetto Corpus Caesarianum, ossia
- De Bello Hispaniensis Sulla guerra in Spagna
- De Bello Africo Sulla guerra in Africa
- De Bello Alexandrino Sulla guerra in Medio Oriente ed Egitto
Il commentarius
Il termine commentarius indicava un tipo di narrazione intermedio fra la raccolta dei materiali grezzi (nel caso di Cesare gli appunti personali, i rapporti al senato sull'andamento delle campagne galliche, etc.) e la loro elaborazione in forma letteraria, arricchita degli ornamenti stilistici e retorici tipici della vera e propria storiografia. Il commentario avrebbe dovuto fornire materiale agli storici. Cesare intendeva inserirsi in tale tradizione: sia Cicerone (Brutus), sia Irzio nella prefazione al libro ottava del De bello Gallico parlano dei Commentarii di Cesare come di opere composte per offrire ad altri storici il materiale sul quale impiantare la propria narrazione, pur affermando che nessuno avrebbe potuto riscrivere quanto Cesare già aveva detto con ineguagliabile semplicità . In realtà , l'opera di Cesare sotto la veste dimessa del commentario, si avvicina alla historia. Lo dimostrano la drammatizzazione di certe scene ed il ricorso ai discorsi diretti. Cesare usa una ammirevole sobrietà nel conferire al proprio racconto efficacia drammatica, evitando gli effetti grossolani e plateali e soprattutto i pesanti fronzoli retorici: in questa direzione va anche l'uso della terza persona, che distacca il protagonista e lo pone come personaggio autonomo nel teatro della storia.
Il De bello Gallico
Il De bello Gallico, probabilmente, in origine, era intitolato C. Iulii Caesaris rerum gestarum, il sottotitolo col riferimento alla campagna gallica è stato aggiunto in seguito, successivamente alla morte dell'autore, per meglio distinguere questi Commentarii da quelli sulla guerra civile e dagli altri confluiti nel Corpus Caesarianum. I sette libri dell'opera coprono il periodo dal 58 AC al 52 AC, in cui Cesare procedette alla sottomissione della Gallia. La conquista si svolse secondo fasi alterne, registrando anche pesanti insuccessi che il racconto di Cesare attenua o giustifica, ma non nasconde. Il De bello Gallico, verosimilmente, è stato scritto anno per anno, durante gli inverni, nei periodi in cui erano sospese le operazioni militari. Tale ipotesi è avvalorata da alcune contraddizioni presenti nell'opera, difficilmente spiegabili se si ammette una redazione avvenuta in un breve lasso di tempo, inoltre tale ipotesi spiega l'evoluzione stilistica dallo stile scarno del commentarius alla prosa più accurata tipica della historia, infatti, nella seconda parte dell'opera è presente una maggiore varietà di sinonimi ed è più frequente l'uso del discorso diretto, anche se Cesare predilige il discorso indiretto, mutuato dall'abitudine ai rapporti militari e governativi, quindi il discorso diretto può essere una voluta concessione alla consuetudine storiografica romana. È possibile che Cesare, per comodità compositiva, abbia redatto separatamente, forse in forma abbozzata, i resoconti delle varie campagne e li abbia poi riordinati e coordinati in un secondo momento.
Il De bello civili
Il De bello civili si divide in tre libri, i primi due narrano gli eventi del 49 AC ed il terzo quelli del 48 AC, senza tuttavia coprire interamente gli avvenimenti di quest'ultimo anno. L'opera appare incompiuta, infatti, la narrazione lascia in sospeso l'esito della guerra di Alessandria. Si pensa che il De bello civili sia stato composto nella seconda metà del 47 AC e nel 46 AC, e pubblicato poi nello stesso anno 46. Cesare, attacca la vecchia classe dirigente, rappresentata come una consorteria di corrotti e ricorre all'arma di una satira sobria, una novità stilistica rispetto al De bello Gallico, per svelare le basse ambizioni e i meschini intrighi dei suoi avversari, tuttavia, nel De bello civili, non si trova un preciso programma di rinnovamento politico dello stato romano, infatti, Cesare aspira soprattutto a dissolvere di fronte all'opinione pubblica l'immagine che di lui dava la propaganda aristocratica, presentandolo come un rivoluzionario, un continuatore dei Gracchi o, peggio ancora, di Catilina e vuole mostrarsi come colui che si è sempre mantenuto nell'ambito delle leggi e che le ha difese contro gli arbitrii dei suoi nemici. Il destinatario della sua propaganda è lo strato "medio" e "benpensante" dell'opinione pubblica romana e italica, che vedeva nei pompeiani i difensori della costituzione repubblicana e della legalità e che temeva i sovvertimenti sociali, perciò Cesare spiega la ragione di alcuni suoi provvedimenti di emergenza e cerca di rassicurare i ceti possidenti. Sottolineando di essersi sempre mantenuto nei limiti della legalità repubblicana, Cesare insiste sulla propria costante volontà di pace: lo scatenarsi della guerra si deve solo al rifiuto, più volte ripetuto, di trattative serie da parte dei pompeiani. Un altro fondamentale motivo dell'opera è la clemenza di Cesare verso i vinti, contrapposta alla crudeltà degli avversari. Dopo Mario e Silla, molti si aspettavano nuove proscrizioni, nuovi bagni di sangue, Cesare mira a rassicurare la popolazione e insieme di disarmare l'odio dei suoi nemici. Sia nel de bello gallico, sia nel de bello civili Cesare eleva un monumento alla fedeltà e al valore dei propri soldati, dei quali contraccambia l'attaccamento con affezione sincera. Probabilmente l'elogio che Cesare fa dei componenti del suo esercito non può essere staccato dal processo di promozione sociale, fino all'ammissione nei ranghi del senato, degli homines novi di provenienza militare, ma è anche pensando ai posteri che Cesare tramanda nella sua opera i nomi di centurioni o di semplici soldati distintisi in atti di particolare eroismo.
Vedi anche: I continuatori di Cesare scrittore
Il nome "Cesare" rimane in molte lingue come sinonimo di Comandante, leader; il tedesco Kaiser ed il russo Zar derivano dal nome di Cesare, e ci furono molti successivi Imperatori con quel nome. Pare che la pronuncia latina del nome fosse qualche cosa di simile a "kai-sahr".
La radice stessa potrebbe non essere di origine latina: nella stele di Rosetta si trova un geroglifico egiziano che è stato trascritto come k-e-s-r-s e si suppone correlato al senso latino. Più interessante, è stato detto che il latino Cesare potrebbe essere di derivazione persiana Kasrá=Chosroës e della sua forma plurale Akásirah (titolo di quattro grandi dinastie di Re Persiani), fra cui Ahasuerus o Khshayarsha (Serse I, nipote di Ciro il Grande); eventuali relazioni con kisri e kasra sono state considerate come meno significative, anche perché più riferite ad epoche posteriori (Sassanidi).
Per la tragedia di Shakespeare basata sulla vita di Giulio Cesare, si veda Giulio Cesare
La veridicità di Cesare
Lo stile scarno dei Commentarii cesariani, il rifiuto degli abbellimenti retorici tipici dell'historia, la riduzione del linguaggio valutativo, contribuiscono moltissimo al tono apparentemente oggettivo e impassibile della narrazione cesariana, ma indubbia è la connessione dei Commentarii con la lotta politica. La correlazione è più immediata nel De bello civili che nel De bello Gallico. In ambedue le opere la presenza di procedimenti di deformazione è comunque innegabile, non si tratta, però, mai di falsificazioni, bensì di omissioni più o meno rilevanti, Cesare attenua, insinua, ricorre a lievi anticipazioni o posticipazioni, dispone le argomentazioni in modo da giustificare i propri insuccessi. Nel Gallico, Cesare sottolinea le esigenze difensive che lo hanno spinto a intraprendere la guerra, senza esaltare la conquista. Era del resto consuetudine consolidata presentare le guerre di conquista come necessarie a proteggere lo stato romano e i suoi alleati da pericoli provenienti da oltre confine. Oltre che ai Romani, Cesare si rivolge all'aristocrazia gallica per assicurarle la propria protezione contro i facinorosi che, sotto gli sbandierati ideali d'indipendenza, celano l'aspirazione alla tirannia. Nel De bello civili Cesare sottolinea come la sua azione si sia sempre mossa nell'ambito delle leggi, si presenta come un moderato, dal quale non ci si devono certo attendere accessi rivoluzionari. In ambedue le opere, egli mette in luce le proprie capacità d'azione militare e politica. La "fortuna", intesa come sorte, serve a spiegare cambiamenti repentini di situazione, un fattore imponderabile che talora aiuta anche i nemici di Cesare, è quindi ciò che sfugge alle capacità di previsione e di controllo razionale dell'uomo. Cesare cerca, infatti, di spiegare gli avvenimenti secondo cause umane e naturali, di coglierne lucidamente la logica interna e non fa mai ricorso all'intervento delle divinità .Le teorie linguistiche di Cesare
Quintiliano e Tacito espressero giudizi entusiastici sulle orazioni di Cesare attualmente perdute. In un passo del Brutus Cicerone sembra contrapporre lo stile scarno dei Commentarii a quello delle orazioni, cui non avrebbero fatto difetto gli ornamenti retorici. Probabilmente lo stile oratorio di Cesare si manteneva in equilibrio tra asianesimo ed atticismo. Cicerone riconosce che Cesare agì da "purificatore" della lingua latina, correggendo un uso difettoso e corrotto con un uso puro e irreprensibile. Cesare espose le proprie teorie linguistiche nei tre libri De analògia, composti nel 54 AC e dedicati a Cicerone, che certo non condivideva quelle teorie. Dal trattato emergeva l'opzione per un trattamento razionale del latino. I pochi frammenti conservati mostrano come Cesare ponesse a base dell'eloquenza l'accorta scelta delle parole, per la quale il criterio fondamentale doveva essere la "analogia", la selezione razionale e sistematica, contrapposta alla "anomalia", ossia l'accettazione delle consuetudini acquisite dal sermo cotidianus. Cesare limitava la selezione alle parole già nell'uso e consigliava di fuggire le parole strane e inusitate. È evidente la coerenza di queste prescrizioni con lo stile asciutto e preciso dei Commentarii. L'analogismo di Cesare è ricerca della semplicità , dell'ordine e, soprattutto, della chiarezza, alla quale talora egli arrivava a sacrificare l'eleganza. Cicerone riconobbe la grandezza dei Commentarii, ma nel complesso le teorie linguistiche di Cesare non potevano certo trovarlo consenziente. Il giudizio che Cicerone espresse sui Commentarii di Cesare appare tanto più importante se si considera la profonda differenza di stile che separa la forma della scrittura cesariana da quella ciceroniana. L'eleganza essenziale ed il periodare ordinato e regolare fecero sì che i testi di Cesare fossero nei secoli utilizzati a scopo didatticoLink esterni